STORIE DAL MONDO – Roberto, tra Bolivia ed Egitto promuovendo progetti per la difesa dei diritti umani

Roberto Simoncelli, classe 1977, è un castegnatese doc. Ma da sempre si è sentito cittadino del mondo con la sua voglia di viaggiare; viaggiare per approfondire, per capire, per scoprire e iniziare a vedere il mondo da sua prospettiva.

Marcato da un’esperienza di lavoro con persone diversamente abili, coglie i segnali per il percorso che dovrà seguire nella vita. E nel 2003 si trova ad essere tra i responsabili di un progetto di sviluppo rurale integrale in alcune comunità indigene nel sud della Bolivia.

Da due anni a questa parte, con l’avvio di un progetto al Il Cairo, vive su tre continenti. E per quanto riguarda il futuro vorrebbe tornare almeno in Europa, anche per l’educazione delle figlie, oramai non più bambine.

Sappiamo che hai lasciato Castegnato per la Bolivia; quale città è diventata la tua nuova casa?

É una domanda difficile, molto difficile. Lo dico senza retorica. Primo, perché entra in gioco il concetto di casa e, secondo, ho vissuto in tante città, anche contemporaneamente, come in questo momento.

«Poserò la testa sulle tue spalle e farò un sogno di mare e domani un fuoco di legna perché l’aria azzurra diventi casa.»

Sono i versi famosi della canzone di De André e Fossati Khorakhané (a forza di essere vento). A proposito, mia figlia si chiama Wayra, un nome quechua, che significa vento. Fuori dalla poesia: sono una persona del Nord del Mondo; per più di 20 anni ho vissuto in Italia, in Europa. Sono una persona del Sud del Mondo, da 20 anni, più o meno, bazzico per il Sud America e adesso l’Africa. Mia moglie è nata in Bolivia, suo padre era afro boliviano, ho una figlia che è nata a Potosí, a 4000 metri sopra il livello del mare. Un’altra figlia nata a Rio de Janeiro, a 100 metri dal mare. Questa seconda figlia secondo i documenti è italiana, brasiliana boliviana. Per me casa sono tutti i posti dove ho vissuto e mantengo degli affetti o un affetto speciale… Sto divagando, un po’di concretezza, faccio il bresciano. Casa è Castegnato e la Franciacorta, che non ho mai lasciato. Porto nel cuore Potosí e La Paz in Bolivia e Rio de Janeiro. Dove vivo? Adesso da due anni vivo su 3 continenti, ma per farla corta sono per lo più al Cairo.

A che età hai deciso di partire, e cosa ti ha spinto a prendere questa decisione?

Formalmente a 25 anni saluto famiglia, amici e lavoro, e parto per la Bolivia. In realtà la decisione l’avevo già maturata durante gli studi universitari a Brescia. Indirizzo in economia politica (e non è una casualità!), Amartya Sem Josepgh Stigliz alla ribalta, almeno nella mia testa. Dopo due anni ho interrotto gli studi per la volta dell’Irlanda. Una piccola esperienza di lavoro con persone con disabilità, e tante amicizie in Europa. Quell’esperienza mi ha marcato, mi ha fornito alcuni dei segnali da seguire nel sentiero della vita: essere consapevole di quali sono i problemi e le cose che davvero contano, perseguirle con coraggio e, perché no, voglia di vivere, di godere della bellezza che abita il mondo e lo spirito e anche tanta leggerezza e voglia di divertirsi. Torno a Brescia finisco l’università e la tesi di laurea con i piccoli produttori di cacao di alcune comunità indigene in Costa Rica è una conferma sulle mie aspirazioni.

In poche parole cosa mi ha spinto a lasciare il mio paese? Senza dubbio i valori familiari e la ricerca personale sul senso del vivere e sulla felicità. Sentivo l’urgenza di viaggiare per approfondire, per capire, per scoprire e iniziare a vedere il mondo da una mia prospettiva, immaginarmi un mondo che vorrei: utopia. Forse quel pizzico di follia e di rivolta contro il sistema e le ingiustizie, così presente, grazie a Dio, nell’anima dei giovani. Nessuna pretesa di salvare il mondo, ma di vivere a modo mio e fare qualcosa per affermare la dignità, le persone, la natura, il rispetto per le minoranze, per il diverso, lo scambio, la reciprocità. In fondo rivendico il Diritto di Sognare per un mondo meno ingiusto con più solidarietà, giustizia e libertà. Ho lavorato parecchio nelle carceri e continuo a farlo; libertà e giustizia sono due parole che mi stanno a cuore, molto a cuore. Non riesco a vederle separate. Non esiste una definizione di libertà; ognuno ha la libertà di crearsela o meno e di viverla alla sua maniera. Per me libertà è responsabilità ed essere consapevoli e scegliere. Scelgo una libertà che non è solo mia, ma di tutti. Giustizia è una concetto concretissimo: è la concretizzazione dei diritti umani, a partire dal rispetto dei gruppi più vulnerabili e delle minoranze e del loro diritto di assomigliare a se stesse, di autodeterminazione. Nel mio piccolo penso di essermi speso in tutti questi anni (e iniziano a diventare parecchi) per promuovere nel concreto questi concetti.

Sicuramente in questo periodo lontano da casa avrai provato tante emozioni! Qual è stato il tuo ricordo più significativo da quando sei in Bolivia?

Senz’altro quando ho visto per la prima volta mia moglie. Poi le volte che mi ha detto: “estoy embarazada”.

Sei riuscito ad ambientarti velocemente in questa nuova realtà?

2003. L’inizio è stata una batosta. Ci siamo fatti le ossa. Eravamo responsabili di un progetto di sviluppo rurale integrale in alcune comunità indigene nel sud della Bolivia. Mi avevano detto che in qualche modo assomigliavano alle valli bresciane. Non ho mai capito in che modo. Erano così desolate ed aride, che all’inizio era la gente del posto che doveva tirarci su di morale. Onestamente non è stato facile ambientarsi e non è stato veloce decifrare i codici di una cultura così diversa dalla nostra che, fortunatamente (mi sarei detto solo qualche anno più tardi), mette in discussione anche le nostre certezze e ti rinnova. Poi alla fine penso di aver ricambiato e quantomeno ho dato tutto quello che avevo; è stata un’esperienza meravigliosa per i risultati, ma ancor di più per la scoperta di un altro modo di vivere, per la “cosmovisione andina”, per la dimensione umana, mistica e spirituale della sua gente, semplicemente per la loro fiducia ed autentica amicizia.

All’inizio ci hai accennato che vivi “contemporaneamente” su tre continenti e tra le città hai citato Il Cairo. Quali sono i continenti su cui vivi, e cosa ti ha portato in Egitto oggi?

America Latina/Europa/Africa. Dal 2019 collaboro con l’Agenzia Italiana alla Cooperazione allo sviluppo nella promozione di iniziative a favore dei gruppi più vulnerabili. All’inizio svolgevo missioni brevi e abbastanza frequenti che mi permettevano di fare periodo in Egitto e tornare a casa in Bolivia/Italia. Quest’anno è iniziato un progetto rivolto alla tutela dei diritti dei bambini in conflitto/contatto con la legge e le vittime di reato. È un settore dove ho lavorato molto in passato e speriamo di poter contribuire con il nostro granello di arena.

Quando, nel 2003, hai salutato la famiglia prima della partenza della Bolivia, sapevi già che non saresti rientrato a breve?

Corretto. La durata del progetto era di 3 anni e la cosa mi spaventava, perché sapevo che non sarei tornato di frequente, anzi, se andava bene una volta all’anno.

E come è stata accolta dalla tua famiglia e dai tuoi amici questa decisione?

Sicuramente ho sempre avuto un supporto incondizionato da parte della mia famiglia e così fu anche in quella occasione. Naturalmente c’era anche tanta tristezza e sofferenza reciproca. Probabilmente la mia famiglia ha sofferto più di me. Io son partito e mi sono immediatamente immerso in un mondo nuovo. Per loro era cambiata solo il fatto che io non c’ero.

Gli amici… Quelli stanno ancora festeggiando per la partenza! Scherzo, è stata dura. È anche bello avere la consapevolezza che le amicizie, almeno dalle nostre parti, sono profonde e durano.

Ad oggi possiamo dire che hai passato quasi la metà della tua vita lontano da casa. Sicuramente un po’ di nostalgia si sarà fatta sentire, ti è mai capitato di pensare “mollo tutto e torno indietro”?

Un po’di nostalgia? Direi tanta saudade. Gilberto Gill diceva: «Toda saudade é a presença. Da ausência de alguém, de algum lugar.» Direi anche che stiamo pensando di tornare indietro, almeno in Europa, anche per l’educazione delle mie figlie, non più bambine.

E come si superano questi momenti?

Forse con consapevolezza, guardandosi allo specchio per cercare di capire qual è la cosa più giusta.

In questi tuoi anni lontano da casa, hai avuto modo di lavorare o collaborare con gente che avesse le tue stesse radici?

Si fortunatamente si.

Quali progetti avevi quando sei partito, e quali sono i tuoi progetti futuri?

Ho avuto fortuna di arrivare in Bolivia proprio durante un grandissimo cambiamento storico in atto ed in qualche modo ne eravamo parte attiva. Partecipavamo e c’era fermento. In alcuni Paesi si discuteva del cambio del comma tot dell’articolo tot di qualche vecchia legge. Li si stava fondando un nuovo Stato, una nuova costituzione… Come ho detto prima ho sempre promosso progetti per la difesa dei diritti umani dei gruppi più vulnerabili come bambini a rischio, comunità indigene, persone private di libertà, principalmente in Bolivia, ma anche in Brasile ed altri Paesi del Sud America. Da 2 anni sto collaborando con il governo italiano per promuovere progetti a favore dei diritti dei bambini, delle persone con disabilità e delle donne in Egitto. Per adesso ne sono onorato e “io speriamo che me la cavi”

Raccontaci qualche curiosità sulla Bolivia e sulla località in cui ti trovi!

A La Paz, nella capitale, c’ è una festa a cui sono particolarmente affezionato, quella del Señor del Gran Poder. É una festa che dura un intera settimana, senza contare i mesi di preparazione, e dove succedono tante cose: riti religiosi, offerte, pietanze, soldi, magia, disordine, teatro, 30 mila danzatori che sfilano nel cuore della città ed altrettante casse di birre. In Bolivia ero parte di una Fraternidad e ballavamo la Diablada. Ho chiesto un favore al Signore del Gran Poder e la tradizione vuole che, affinché si avveri, bisogna promettere di partecipare 3 volte consecutive. Ringrazio per essere stato ascoltato, ma vorrei essere là: perché mi piace e mi manca a prescindere, e perché vorrei chiederne un altro favore!

Ripensando alla Franciacorta, quale luogo ti è rimasto nel cuore?

La Franciacorta! Le Torbiere del Sebino!

Quali sono i tuoi rapporti con la Franciacorta, e ogni quanto torni?

Al taxista egiziano o latino americano, o ieri sera agli amici in Feluka sul Nilo, o a chiunque mi chieda da dove vengo rispondo: sono della Franciacorta. Un amica ha scritto nel suo libro che abbiamo un filo di ferro dentro che ci sostiene sempre. Penso all’amico imprenditore, che si alza alle 6 per andare in ufficio, e non va in pensione a godersi la vita, perché è preoccupato dei dipendenti; penso al panettiere del paese che da una vita passa le notti a sfornare, agli amici operai e così via… E vado fiero della mia terra e della sua gente. Torno quando posso. All’inizio una volta all’anno adesso anche 3 o 4. Toccata e fuga, ma torno!

Se potessi portare qualcosa della Bolivia in Franciacorta, cosa porteresti? E della Franciacorta in Bolivia?

Festa e spiritualità, assieme; le due cose da quelle parti vanno a braccetto. E poi ancora festa e spazio e tempo ai sentimenti/relazioni. Dalla Franciacorta in Bolivia: tutto, anche “el Golem!”. Famiglia, amici, cotechini, vini, biciclettate tra le sue colline, primavere, il dialetto….

Parlando di attualità, come hai vissuto e come è stata gestita questa pandemia in Bolivia?

L’ho vissuta con preoccupazione per i nostri cari e con una certa impotenza e disillusione. Bolivia, Egitto, Italia. Personalmente mi aspettavo maggiore senso civico da parte delle persone e minore intervento coercitivo dello Stato. Avevo la speranza, inoltre, che questa occasione fosse l’opportunità per fermarsi, perché abbiamo dovuto tirare i remi in barca e fermarci, e ripensare a dove vogliamo andare e cosa abbiamo sbagliato Ecco su questo secondo punto mi sembra che abbiamo solo schiacciato ancor di più l’acceleratore in questa corsa sfrenata per consumare di più ed arrivare primi, senza immaginarci altri modi possibili di vivere, ma spero di sbagliarmi!

Se potessi affidare al vento un messaggio per i giovani d’oggi che vogliono lasciare quel porto sicuro chiamato casa, e andare alla scoperta del mondo, cosa scriveresti su quel biglietto?

Con le parole di Antoni Machado: «Viandante, non c’è cammino, il cammino si fa andando.» Questo è un bellissimo invito. Ognuno è libero e responsabile per inventarselo e può scoprire il suo mondo viaggiando, ma anche a casa sua, su un divano.